Il valore storico dell’arrampicata sui massi

di Ivan Guerini

 

In Francia i Massi di Fontainebleau furono “arrampicati” dai parigini per compensare la distanza che divideva la capitale dalle montagne, nel 1908 Jacques Wehrlin sale la crepa tra le Carre d'As e Duroxmanie, per molto tempo considerato la prima testimonianza storica della salita d'un masso.
Nel 1935 l'ingegnoso Pierre Allain sale l'Ange Allain grazie a un prototipo delle odierne scarpe d’arrampicata a suola liscia. Diventando così l'entusiasta caposcuola della zona, considera la salita di quei massi come una trasposizione dell'idea di conquista alpina con una finalità di sfida agonistica.
In Italia, a partire dagli anni Trenta, nel Carso Triestino, Emilio Comici e i “Bruti” della Val Rosandra fecero delle Rocce di Prosecco il loro “ginnasio”, avviando una grande tradizione alpinistica. Dal 1933 vennero in auge anche i Massi del Nibbio e il Sasso Rossi, la cuspide antistante alla famosa parete di Pian dei Resinelli (presso il Lago di Como), che videro le “prodezze dimostrative”dei “Ragni di Lecco” tra i quali eccellevano Vittorio Panzeri, Vittorio Ratti, Mario Dell'Oro e il milanese Nino Oppio, seguiti a ruota dai più forti arrampicatori lombardi delle generazioni successive, come i monzesi Andrea Oggioni, Walter Bonatti e Gaetano Maggioni.
Sulle Roccette di Milano, costituite da blocchi di puddinga posti nel 1962 all'interno dei giardini pubblici di Porta Venezia, gli alpinisti di città arrampicavano fin dai primi anni Quaranta.
Negli Stati Uniti d'America, a partire dagli anni Cinquanta, John Gill conferì una marcata identità al bouldering, da lui considerato un modo di arrampicare che si potrebbe definire d'introspezione atletica perché le potenzialità del corpo venivano sviluppate parallelamente a quelle dell'arrampicata, senza mai considerare gli appigli dei sassi come attrezzi ginnici. Personalmente mi dedicai a partire dal 1971 alla scoperta dei Massi di Val Masino e Val di Mello (Lombardia) esplorando per un decennio un'infinità di blocchi di tutte le dimensioni, da quelli più bassi di Cataeggio a quelli decisamente alti della Rasica. Il desiderio che mi induceva ad esplorare sia massi facili che difficili anche per una giornata intera, divenne una possibilità di raccordare l’interiorità dell’individuo all'essenzialità della parete, piccola o grande che fosse. Il masso fu la “chiave d'accesso” che mi permise di percorrere i tratti meno interpretabili delle altissime pareti sconosciute che affrontai da solo in seguito.
Dal 1974, Gian Carlo Grassi si dedicava all'esplorazione dei Massi della Valle di Susa, con l'entusiasmo irrefrenabile di uno “spirito naif”. Fondamentale fu anche l’amicizia col formidabile Kosterlitz, scozzese trasferitosi a Torino e salitore di un masso della Valle Orco, che da lui prese il nome rimanendo per decenni la fessura “estrema” per antonomasia.
Grassi trascinò tutti i componenti del “Mucchio Selvaggio” di Torino del quale fecero parte Danilo Galante, Andrea Gobetti (l'enfant prodige del gruppo), Massimo De Michela, Mauro Pettigiani e Roberto Bonelli, la cui particolare predilezione per le fessure ad incastro gli consentì di realizzare, nel 1978 in Valle dell'Orco, la prima ripetizione del Masso Kosterlitz. Da quegli arrampicatori Marco Bernardi si distinse per la genuina curiosità che lo contraddistingue tutt'ora e che gli fece considerare i massi, in quanto concentrato d'impegno, una forma di nobile attività a sé stante, al pari di Gabriele Beuchod.
In quegli anni in Italia si delinearono differenti motivazioni fra quanti erano attirati da questo tipo di “breve arrampicata”, priva del rischio di caduta che caratterizza la parete, della severità delle fredde pareti dell’alpinismo e della grandiosità tipica delle vette alpine. Per la maggioranza degli sportivi salire sui massi rappresentava la possibilità di effettuare un'arrampicata alleggerita dal peso del materiale da roccia, e di allenarsi quando non era possibile recarsi in montagna, mentre la “minoranza riflessiva” prendeva le mosse dall’“esigenza estetica” di alleggerire se stessi dai propri limiti con gesti essenziali.
Il gruppo dei “Sassisti di Sondrio” potrebbe essere considerato a tutti gli effetti un secondo “Mucchio Selvaggio”: l'arrampicata sui sassi era vissuta come una “contestazione alternativa”ai severi disagi dell'alpinismo e all'autorevolezza della tradizione. Quell’attività inizialmente identificata in un’idilliaca “idea di libertà” dal materiale d'arrampicata, di “superamento dei limiti” personali e di “estetica motoria”, nei primi anni Ottanta, con l'avvento dell'arrampicata geotecnica (a spit) si trasformò per alcuni in un’attività necessaria ad accrescere la propria forza, resistenza e coordinazione. Poiché i massi consentivano di superare passaggi molto più difficili di quelli che si incontravano in parete, furono considerati come superficie d’allenamento per incrementare le capacità fisiche e affinare la tecnica di salita in modo da trovarsi agevolati in parete.
Questa tendenza ha portato a relegare le possibilità dell’individuo in un ambito specializzato a discapito della percezione ambientale.
Alla fine degli anni Novanta ci fu un “lancio promozionale” di quest’attività da sempre praticata, e pertanto l’arrampicata sui massi fu chiamata definitivamente bouldering, all'americana. Per boulder non s'intende più solo il masso “in quanto tale”, ma il tipo d'impegno che richiede e che addirittura si è cercato di riprodurre con le prese e le modalità esecutive dell'arrampicata sintetica, realizzando cloni di massi, da quello della palestra indoor di Orly ai recentissimi antistanti il Palabraccini di Torino.